Tweet


POPOLAZIONE E SVILUPPO NEI PAESI DEL TERZO MONDO
Gran parte dei paesi in via di sviluppo si trovano alla fine del Novecento nella terza fase della transizione demografica in cui la fecondità, ancora elevata, inizia il suo declino, il tasso di crescita della popolazione accenna i primi segni della diminuzione e la proporzione di giovani sul totale della popolazione resta elevata. La proiezione "più probabile" delle Nazioni unite (ipotesi intermedia che prevedeva il raggiungimento del livello di sostituzione delle generazioni in ogni regione dei paesi in via di sviluppo entro il 2035) nel 1990 calcolava che la quota di otto miliardi e mezzo di popolazione, prevista per il 2025, era cresciuta di circa 38 milioni rispetto a quanto prospettato appena nel 1988. Invece di un totale stabile di circa dieci miliardi previsto, attorno al 2085 la popolazione del mondo potrà stabilizzarsi attorno agli 11,6 miliardi. Nel futuro più prossimo la crescita si avrà soprattutto nei paesi in via di sviluppo. I maggiori aumenti numerici si verificheranno in Asia meridionale, mentre nell'Asia orientale paesi quali la Cina e il Giappone hanno già ritmi di crescita contenuti grazie al rapido declino della fecondità ottenuto negli ultimi decenni. Entro la fine di questo secolo i maggiori aumenti relativi di popolazione saranno sperimentati in Africa in cui si avrà il più alto tasso regionale annuo di incremento (3% circa) mai osservato al mondo. Ugualmente notevoli saranno i tassi di crescita dell'America latina e della regione dei Caraibi, con valori medi annui del 2%. La specificità dell'evoluzione dei paesi in via di sviluppo, rispetto alle stesse evoluzioni registrate dai paesi sviluppati, risiedeva nella velocità della loro espansione: nel corso del XX secolo i primi avevano subito una crescita pari a quella realizzata dai secondi in più di duecento anni. Dall'inizio del Novecento fino al 1920 circa l'aumento della popolazione dei paesi in via di sviluppo fu estremamente modesto, oscillando attorno allo 0,6% annuo; il tasso raddoppiò tra il 1920 e il 1940 (1,1% circa) e, ancora, tra il 1940 e il 1960 (2,2%). Gli anni sessanta si caratterizzarono, infatti, come il periodo di massima espansione, cui fece seguito un lieve rallentamento. Questa enorme diversità di comportamento fu dovuta al fatto che nei paesi sviluppati il passaggio da una demografia di antico regime ad alta fecondità e mortalità a una demografia moderna avvenne lentamente, sotto l'impulso di una discesa graduale della mortalità, cui si accompagnò, altrettanto gradualmente, il declino della natalità. Al mutamento demografico si associò quindi anche una modificazione lenta delle conoscenze mediche e scientifiche, dello sviluppo tecnologico, dei modi e delle tradizioni che resero non traumatico il passaggio da una fase alla successiva. Nei paesi in via di sviluppo, al contrario, l'importazione dal mondo sviluppato delle moderne tecniche mediche e sanitarie fece diminuire immediatamente e consistentemente il livello di mortalità generale, senza che a questo seguisse un contemporaneo ridimensionamento del comportamento riproduttivo, maggiormente guidato da fattori culturali solo lentamente modificabili. La conseguenza sul piano demografico fu una divaricazione dell'andamento di queste due componenti che portò a una crescita della popolazione estremamente veloce e incontrollabile. Le diverse regioni dei paesi in via di sviluppo non avevano al loro interno situazioni omogenee. Per quel che riguarda la fecondità, nell'Asia meridionale e occidentale il numero medio di figli per donna oscillava nel 1990 tra 4,3 e 4,7, mentre era meno elevato nella parte orientale, dove alcuni paesi (Giappone, Corea del sud, Cina) erano già scesi al di sotto dei 2,1 figli, livello che segna la soglia sotto la quale non è più assicurata la sostituzione numerica delle generazioni. La diminuzione nei quarant'anni successivi alla Seconda guerra mondiale fu abbastanza consistente, tenuto conto della media di sei figli per donna osservabile in queste stesse regioni nel 1950-1955. A livelli ancora inferiori si situano le regioni dell'America latina in cui i valori medi della fecondità oscillano tra i 2,9 figli per donna della regione caraibica, i 3,2 dell'America del sud e i 3,5 dell'America centrale. In Africa si registravano al 1990 i maggiori valori della fecondità che in media erano rimasti immutati dagli anni cinquanta. Nella regione orientale (tranne che nelle Isole Mauritius) e occidentale il numero medio di figli per donna restava prossimo a sette; nella parte centrale a sei; nelle regioni settentrionale e meridionale a cinque. A questo grande potenziale demografico facevano però riscontro i perduranti alti livelli di mortalità, specie infantile. Dopo la Seconda guerra mondiale i progressi nel campo della sopravvivenza furono notevolissimi. La speranza di vita alla nascita era passata, nei paesi meno sviluppati, dai 41 anni del 1950-1955 ai 63 anni del 1990, ma la differenza con i paesi più sviluppati rimase estremamente pronunciata: un bambino che nasceva in uno dei paesi più ricchi aveva una speranza di vita media maggiore di circa 10-12 anni rispetto a un suo coetaneo nato in uno dei paesi meno sviluppati. Come nel caso della fecondità le differenze regionali erano molto pronunciate anche all'interno del mondo più povero: a una speranza di vita alla nascita di 52 anni nell'Africa centrale si contrapponevano i 61 anni dell'Africa settentrionale, i 70 della regione caraibica, i 72 dell'Asia orientale. Alla fine del secondo millennio, l'aumento della popolazione nei paesi in via di sviluppo, con i relativi flussi migratori all'interno e tra le aree geografiche, stava contribuendo incisivamente alla modifica degli ecosistemi più importanti con effetti ancora sconosciuti soprattutto per quel che riguarda le riserve alimentari necessarie a sfamare una popolazione via via crescente. Le popolazioni rurali erano infatti indotte, a causa della loro crescita, ad abbandonare le campagne e a migrare in massa verso i centri urbani. Quasi ovunque si era avuto un aumento indiscriminato della popolazione delle città che crescevano a tassi elevatissimi e superiori al 3,6% annuo. In questi paesi si assistette dagli anni settanta in poi a un forte declino dell'autosufficienza alimentare, palesato dall'aumento delle importazioni di cereali. L'instabilità era inoltre accentuata dall'aumento del rapporto di dipendenza: un numero di lavoratori relativamente modesto doveva sostenere un peso crescente di giovani e anziani. In alcuni paesi dell'Africa, per esempio, il 50% della popolazione urbana è costituito da giovani con meno di 15 anni.

R. Rettaroli


United Nations, World Population Prospects 1990, Population Studies n. 120, New York 1991.
Stats